Il sacerdozio di Giovanni Crisostomo (344-407) è un gioiello della letteratura patristica. Scritto dopo il 386, quando egli divenne presbitero impegnato e benvoluto dal popolo, rispecchia il programma della sua vita di sacerdote, di oratore sacro e di vescovo. L'opera, in forma dialogica, si comprende alla luce del sistema elettivo delle cariche ecclesiastiche delle comunità dei primi secoli.
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Alcuni, per gli abusi verificatisi nelle elezioni episcopali, auspicavano il sorteggio; ma sia per l'elezione che per il sorteggio occorreva che l'assemblea fosse raccolta nei "buoni sentimenti e nei santi pensieri" di una profonda coscienza del Cristo. Il Crisostomo, che nel termine "sacerdozio" ha voluto inglobare vescovi e presbiteri, traccia l'ideale del sacerdozio ministeriale. Il popolo non perdona neanche una lieve insufficienza nel sacerdote, che non solo deve evitare ogni occasione di scandalo, ma troncare le dicerie che possono nascere sul suo conto. Egli istruisce con tutto il suo modo di vivere e non può non curare ogni persona secondo le esigenze che essa rivela. In lui, la spiritualità deve apparire anche quando tratta di cose terrene. La sua paternità è maggiore di quella carnale perché sempre rigenera i fedeli al Cristo ed è responsabile della crescita delle anime. Cristo Buon Pastore è il modello dal quale il Crisostomo non si discosta. Con le pratiche ascetiche e la meditazione biblica egli ha acquisito un forte senso di libertà morale che lo rende alieno da ogni emozione, compromesso e intrigo. Tale senso di libertà morale permea tutta l'opera, la cui fortuna è testimoniata dalle numerose versioni nelle varie lingue, anche orientali. Essa merita di essere sempre più conosciuta, specialmente oggi che con il sacerdozio ministeriale si va riscoprendo anche quello dei fedeli, conferito loro dal battesimo. E infatti il Crisostomo parla sempre dell'uno in funzione dell'altro.
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